I grandi classici

La tregua – riassunto

Primo levi

La tregua è un romanzo di Primo Levi, continuazione di “Se questo è un uomo”.
Racconta i mesi del difficile viaggio (27 gennaio 1945 – 19 ottobre 1945) che Levi dovette affrontare da Auschwitz per tornare a casa, a Torino.
Il libro si divide in diciassette capitoli.

1 – Il disgelo
Gennaio 1945. Levi e l’amico Charles scorgono l’armata russa che si avvicina al campo di concentramento mentre seppelliscono il cadavere di un compagno di prigionia.
2 – Il Campo Grande
Levi si ammala di scarlattina e viene ricoverato nell’ospedale del campo. Diversi malati gli raccontano la loro storia o quella di altri prigionieri. Emblematica la vicenda di un bambino nato nel campo, paralitico, morto in giovanissima età.
3 – Il greco
Dopo la liberazione a opera dell’Armata Rossa, Levi stringe amicizia con un ex prigioniero greco, Mordo Nahum. I due si dirigono a Cracovia, dove alloggiano in una caserma di soldati italiani. Indimenticabile lo scambio di battute:
«Ma la guerra è finita – obiettai: e la pensavo finita, come in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi.
– Guerra è sempre – rispose memorabilmente Mordo Nahum.»
Il capitolo si conclude con l’arrivo dei due amici a Katowice, dove si lasciano.

4 – Katowice
Levi fa l’infermiere nel campo di Katowice e incontra diversi connazionali, come il medico Leonardo, e l’infermiera Galina.
5 – Cesare
Levi fa amicizia con Cesare, un commerciante di Roma, con cui va al mercato di Katowice. I due diventeranno compagni di viaggio.
6 – Victory Day
Esplode l’euforia generale per la fine della guerra. I sovietici allestiscono uno spettacolo teatrale per festeggiare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Tutti cantano e ballano al ritmo delle musiche popolari russe. Dopo una partita di calcio, Levi si ammala.
7 – I sognatori
Levi riesce a guarire grazie all’opera del suo amico e medico Leonardo e del dottor Gottlieb. Si narra dei suoi compagni di stanza, tutti con una caratteristica in comune: raccontare le loro vite trasfigurandole con la fantasia, fino a renderle inverosimili.

8 – Verso sud
Per festeggiare l’imminente partenza verso Odessa, punto di imbarco per l’Italia, Levi e Cesare vanno al mercato per comprare del cibo. Qui incontrano una bottegaia che dice loro di aver scritto una lettera a Hitler pregandolo di non entrare in guerra. Il viaggio verso il Mar Nero viene però bloccato: la ferrovia è stata interrotta a causa della guerra.
9 – Verso nord
Il viaggio riparte verso nord, arrivando in un paese della Bielorussia. Levi incontra di nuovo il suo amico greco Mordo, che si è arruolato sotto l’esercito sovietico.
10 – Una curizetta
Levi e i suoi compagni di viaggio proseguono il viaggio a piedi, fino ad arrivare in un altro paese della campagna Bielorussia. Qui Cesare decide di comprare una gallina, ma l’ignoranza del russo rende il compito difficoltoso. Finalmente una vecchia capisce ed esclama “Kura! Kuritza!” ovvero “Gallina! Gallinella!”, e i due possono barattare i loro piatti con l’animale.

11 – Vecchie strade
Levi e i suoi compagni pagano un viaggio in carro per il campo di Staryje Doroghi (che significa Vecchie Strade). Qui vengono smistati insieme ad altri millequattrocento italiani in una ex caserma sovietica, la “Casa Rossa”. Si narra poi dei comportamenti degli ex prigionieri e dei contatti con i contadini del luogo.
12 – Il bosco e la via
Vengono descritti i due mesi di permanenza nella Casa Rossa, fra visite nei boschi e nei campi e l’osservazione degli euforici soldati russi che in modo disordinato tornano a casa. L’esercito ormai in disarmo non è in grado di controllare tutti i cavalli, quindi un ex prigioniero ne approfitta per catturarne uno e macellarlo, con enorme soddisfazione di tutti gli ospiti della Casa Rossa, che non mangiavano carne da mesi.
13 – Vacanza
Levi incontra Flora, una donna italiana ebrea conosciuta nel lager, che usava donargli del pane. Levi sapeva che era frutto di un ignobile scambio di natura sessuale, ma non per questo rifiutava il cibo. Flora ora sembra stare bene, mentre Levi si sente stanco e provato.
Arriva un camioncino cinematografico che proietta tre film in tre giorni di seguito. Questo crea negli ex prigionieri, negli abitanti del luogo e nei soldati russi lì di passaggio un’eccitazione talmente forte da creare disordini.
14 – Teatro
Gli italiani decidono di allestire uno spettacolo teatrale per intrattenere gli ospiti della Casa Rossa. Alla fine della rappresentazione viene annunciata l’imminente partenza per l’Italia. Levi e gli altri non riescono a dormire per l’eccitazione: cantano, ballano e ricordano i compagni morti. Il giorno dopo il grande generale sovietico Tymošenko giunge a bordo di una Fiat Topolino per confermare la partenza.

15 – Da Staryje Doroghi a Iasi
Pieno di emozione, Levi finalmente sale con gli altri ex prigionieri sul treno per l’Italia. Saluta commosso l’infermiera Galina. A Iasi incontra una comunità di ebrei sopravvissuti all’Olocausto, da cui riceve una somma irrisoria di lei, dal momento che i soldati russi gli avevano confiscato i rubli al confine.
16 – Da Iasi alla linea
Levi narra del viaggio in treno attraverso la Romania, l’Ungheria e infine l’Austria. Vicino a Linz gli ex prigionieri passano dalla tutela russa a quella americana e sono condotti in un campo profughi.
17 – Il risveglio
Ormai il viaggio è quasi alla fine. Da Monaco il treno arriva a Verona, e Levi scopre di essere fra i pochissimi a essere sopravvissuto alla Shoah. Finalmente lo scrittore torna a casa, a Torino, il 19 ottobre 1945. Ma dimenticare è e sarà impossibile: ne è emblema l’incubo ricorrente di ritrovarsi nell’inferno del lager.

La lettera scarlatta

Nathaniel Hawthorne

“La lettera scarlatta” è un romanzo di Nathaniel Hawthorne pubblicato nel 1890.
È considerato un classico americano, nonché uno dei primi romanzi a essere prettamente americano e non inglese. Le situazioni, i valori, i personaggi stessi sono intimamente del Nuovo Mondo, nessuno potrebbe confondersi collocandoli in Gran Bretagna.
Il romanzo all’epoca fece scandalo per la sua trattazione su un argomento taboo come l’adulterio.

Il libro si apre con un artificio molto usato all’epoca: lo scrittore finge di stare per narrare una vicenda veramente accaduta, basandosi su documenti reali.
1642, Boston, comunità puritanaHester Prynne dà alla luce una bambina, Pearl, nonostante il marito manchi da anni da casa (al punto che nessuno in città lo conosce). Per questo motivo viene processata per adulterio. Alcuni vorrebbero addirittura che Hester venisse giustiziata per il suo comportamento peccaminoso, ma infine viene condannata a essere esposta sul patibolo alla pubblica umiliazione, esibendo una lettera A cucita di rosso che la renderà una pariah per il resto della vita.
Fa inoltre scalpore la decisione della donna di non rivelare il padre della bambina.

Per combinazione il marito di Hester, Roger Chillingworth, fa ritorno proprio il giorno in cui la moglie viene esposta sul patibolo. Chillingworth, che era stato prigioniero degli indiani, chiede alla donna chi sia l’uomo con cui l’ha tradito, ma lei rifiuta di rivelarlo anche a lui. L’uomo quindi si mette a praticare l’attività di medico sotto falso nome, sperando di ottenere indizi sul padre della bambina.
Il padre in verità è il reverendo Dimmesdale, uno degli uomini più rispettati della città, nessuno potrebbe mai sospettare di lui. Dimmesdale si tormenta per la propria ipocrisia e vigliaccheria, mentre Hester lo protegge e sconta la pena per entrambi.

Passano sette anni. Pearl è diventata una forte, bella, fantasiosa bambina. Hester, sempre innamorata di Dimmesdale, sta espiando la sua colpa conducendo una vita riservata e aiutando i poveri. Chillingworth continua a desiderare di trovare il padre di Pearl e di vendicarsi. La salute del reverendo, a causa del suo tormento interiore, peggiora sempre di più, al punto che deve richiedere le cure di Chillingworth.
Una sera Dimmesdale si decide: sale sul patibolo, pronto a farsi trovare dalla folla e a confessare la sua colpa. Hester lo convince a scendere, ma ormai Chillingworth, che li ha visti, ha capito. Hester svela al reverendo che il medico è in realtà suo marito. I due progettano di scappare con la bambina.

Ma durante un corteo Dimmesdale sale di nuovo sul patibolo, deciso a rivelare tutto, e per l’emozione muore.Ma prima fa in tempo a indicare qualcosa sul suo petto nudo. Alcuni sostengono di aver visto una lettera A rossa marchiata sulla pelle.
La comunità puritana cerca di dare una spiegazione all’accaduto: un’opinione diffusa è che Dimmesdale si sia inflitto quella tortura per la pena che provava per Hester, altri dicono che sia Chillingworth il colpevole, e così via.

Hester e Pearl se ne vanno per iniziare una nuova vita. La bambina non tornerà mai più, mentre Hester lo farà in vecchiaia, divenuta ormai ricca, per essere sepolta vicino all’amato. Sulla sua lapide verrà scritto “In campo nero, la lettera A scarlatta”.

 

I grandi classici

La fattoria degli animali – riassunto

George Orwell

La fattoria degli animali è un romanzo distopico di George Orwell. Il genere è quello della favolaclassica, in quanto i protagonisti sono animali antropomorfi che simboleggiano tipi umani.
Orwell fa satira della rivoluzione russa e della dittatura di Stalin in modo talmente feroce che il libro, scritto nel 1943, poté essere pubblicato solo a guerra finita, per evitare discordie fra Gran Bretagna e Unione Sovietica.

Tutti i personaggi e gli avvenimenti trovano il loro corrispondente storico:
Vecchio Maggiore – Marx/Lenin
Napoleon – Stalin
Palla di Neve – Trotsky
Boxer (o Gondrano) – Stachanov
Berta (o Trifoglio) – la povera gente russa, onesta e manipolata
Mosè – I preti
Mollie – La nobiltà
I cani – la spietata polizia sovietica
Le pecore – la gente manipolabile che canta le lodi della rivoluzione senza pensare
Jones – lo Zar Nicola II
Pilkington – La Francia e l’Inghilterra
Frederick – La Germania

Il fattore Jones possiede una fattoria, ma non è in grado di governarla: è alcolizzato, incompetente e crudele contro gli animali, che sfrutta senza pietà.
Una sera tutti gli animali si riuniscono intorno a Vecchio Maggiore, un anziano e saggio maiale, che narra loro di un sogno che ha fatto, un mondo dove gli animali sono liberi dall’uomo e si autogestiscono, vivendo in armonia. Vecchio Maggiore muore da lì a poco.
Un giorno Jones dimenticata di dare da mangiare agli animali e questi, esasperati, lo cacciano via. Il ruolo di guida viene assunto da due maiali: Napoleon e Palla di Neve.

Il nome “Fattoria Padronale” viene cambiato in “Fattoria degli animali”. Vengono scritti sulla parete della stalla i comandamenti dell’Animalismo, la loro nuova filosofia:

1) Tutto ciò che va su due gambe è nemico.
2) Tutto ciò che va su quattro gambe o ha ali è amico.
3) Nessun animale vestirà abiti.
4) Nessun animale dormirà in un letto.
5) Nessun animale berrà alcolici.
6) Nessun animale ucciderà un altro animale.
7) Tutti gli animali sono uguali.
Gli animali, illetterati, si dimostreranno incapaci di ricordarli, quindi verrà coniato il facile motto “quattro gambe buono, due gambe cattivo”, belato con soddisfazione dalle pecore.

Jones, aiutato dai due fattori Pilkington e Frederick, prova a tornare in possesso della fattoria, ma gli animali si battono eroicamente ed è costretto ad andarsene per sempre. Tuttavia la possibilità di un suo ritorno verrà usato da Napoleon come pretesto per intimidire gli altri animali e costringerli all’obbedienza.
Le cose all’inizio sembrano andare bene, ma i problemi non tardano ad arrivare.
Torna il corvo Mosè, che partecipa alla ricchezza dei maiali e incanta gli altri con favole su Monte Zuccherocandito, una specie di paradiso. Mollie, una vanitosa cavalla, stanca della fatiche della fattoria e nostalgica della vita agiata che conduceva sotto Jones, scappa via.

La rivalità fra Napoleon e Palla di Neve si fa sempre più aspra. Palla di Neve fa approvare il suo disegno di costruire un mulino per aumentare la produttività della fattoria, Napoleon reagisce sguinzagliando i suoi cani, costringendolo alla fuga.
D’ora in poi Napoleon sarà il dittatore della fattoria, mentre Palla di Neve verrà usato come capro espiatorio per ogni problema. Quando il mulino crolla, per esempio, la colpa verrà subito data a Palla di Neve.

Lo strapotere dei maiali è evidente, ma gli animali si dimostrano incapaci di reagire, accecati dalla retorica di Napoleon, in cui hanno estrema fiducia. I maiali assumono atteggiamenti sempre più simili agli uomini, mentre alcuni animali sgraditi a Napoleon iniziano a sparire, accusati di essere spie di Palla di Neve.
Di fronte alle difficoltà, la risposta del cavallo Boxer è “lavorerò di più”. E così farà, finché non verrà gravemente ferito da un attacco di Frederick e verrà cinicamente venduto a un macellaio da Napoleon (che invece dirà agli animali che ha fatto ricoverare il cavallo in una clinica).

A poco a poco tutti i comandamenti vengono cambiati, in accordo con i comportamenti dei maiali:
1. Tutto ciò che va su due gambe è nemico (a meno che non ci si possa guadagnare qualcosa)
2. Tutto ciò che va su quattro gambe o ha ali è amico
3. Nessun animale indosserà vestiti (se non in occasioni speciali)
4. Nessun animale dormirà in un letto (con le lenzuola)
5. Nessun animale berrà alcolici (in quantità eccessiva)
6. Nessun animale ucciderà un altro animale (senza motivo)

Un giorno i maiali imparano a camminare su due zampe, accompagnati dal belato delle pecore che gridano “quattro gambe buono, due gambe meglio”, modifica del vecchio slogan “quattro gambe buono, due gambe cattivo”.
Confusi, gli animali si recano di nuovo presso la parete dei comandamenti, dove vedono che ormai è rimasta un’unica frase:
Tutti gli animali sono uguali. (ma alcuni sono più uguali degli altri)

Il libro si conclude con una scena emblematica: i maiali stringono un’alleanza con gli umani (e cambiano di nuovo il nome della tenuta da “Fattoria degli Animali” a “Fattoria Padronale”) e festeggiano giocando a carte e ubriacandosi. Gli animali, attoniti, non riescono più a distinguere gli uni dagli altri.

I grandi classici

Uno, nessuno e centomila – Riassunto

Luigi Pirandello

Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Luigi Pirandello, pubblicato nel 1926.

Vitangelo Moscarda, detto Gengè, è un uomo benestante che vive nel paese di Richieri. Una mattina sua moglie Dida gli fa un’osservazione in sé innocua, ma che lo fa sprofondare in una profonda crisi esistenziale. La donna infatti gli fa scoprire una lieve pendenza del naso, un piccolo difetto di cui egli non aveva coscienza.
Si accorge così che lui pensava di conoscersi e di sapere chi fosse, ma non è così: gli altri vedono in lui una moltitudine di difetti e di caratteristiche di cui lui non è a conoscenza. Lui non è “uno”, come credeva di essere, ma è “centomila”: ogni persona con cui entra in contatto lo vede in molto diverso. Il suo io è fratturato in un’infinità di maschere in cui lui non si riconosce.

In un primo tempo cerca di disfarsi delle immagini fittizie che gli altri hanno di lui. Considerato da tutti un usuraio, decide di infrangere platealmente questa maschera. Finge di sfrattare un poveraccio, Marco di Dio, quindi a sorpresa gli regala un’abitazione molto più bella. Ma il tentativo non ha l’effetto sperato: la folla, lungi dal ricredersi di avere una visione distorta della sua persona, lo considera matto.

La “follia” di Vitangelo (ovvero il suo sforzo di distruggere le maschere) continua: fa liquidare la banca paterna da cui ricavava il suo benessere, maltratta la moglie,… Finché gli amministratori, Dida e il suocero non iniziano a complottare per rinchiuderlo in manicomio.
Vitangelo è avvertito della macchinazione da Anna Rosa, un’amica della moglie. Vitangelo, riconoscente, prova quindi a renderla partecipe della sua scoperta esistenziale, ma la donna, spaventata, per lo shock gli spara.
Ora tutti sono convinti che Vitangelo abbia avuto una relazione illegittima con Anna Rosa, cosa non vera. Ma Vitangelo decide di sopportare questa maschera, non vera, come dopotutto non sono vere tutte le altre.

Fa mostra di pentimento, come se fosse davvero colpevole, dona tutti i suoi averi e costruisce un ospizio per i poveri, dove lui stesso va a vivere.
Solo, povero, creduto pazzo da tutti, Vitangelo in qualche modo ne esce vincitore: ora non è più costretto a essere “qualcuno”, può essere “nessuno”, rifiutare ogni identità e rinnegare il suo stesso nome, abbandonarsi allo scorrere puro dell’essere e disgregarsi nella natura, vivendo attimo per attimo senza cristallizzarsi in nessuna maschera. Ora è nuvola, ora è vento, ora albero,…

Medea – riassunto

Euripide

“Medea” è una tragedia greca di Euripide, scritta per le Grandi Dionisie del 431 a.C.
Considerata una delle più significative tragedie classiche, viene messa in scena spesso ancora oggi.
“Medea” è formata da un prologo e da cinque atti, intermezzati dai commenti (stasimi) del coro.
Personaggi:
Medea: ex principessa della Colchide, ha aiutato Giasone a impadronirsi del vello d’oro grazie ai suoi poteri magici
Giasone: marito di Medea, l’ha appena lasciata per sposare la principessa di Corinto, Creusa, figlia di Creonte
La nutrice: una serva di Medea
Il pedagogo: un altro servo di Medea, si occupa dei figli
Creonte: re di Corinto, vuole esiliare Medea
Coro: formato dalle donne di Corinto, solidali con Medea
Egeo: re di Atene, è alla ricerca di un modo per avere dei figli
I figli di Giasone e Medea

Prologo e parado (entrata del coro)
La nutrice si lamenta della cattiva sorte di Medea ed espone gli antefatti. Medea, principessa della Colchide, ha tradito la sua famiglia per permettere a Giasone, di cui si era innamorata, di impadronirsi del vello d’oro. I due si sono poi sposati e hanno avuto dei figli, ma questo ormai appartiene al passato: Giasone infatti l’ha lasciata per sposare la figlia di Creonte, e Medea piange disperata nelle sue stanze. La nutrice, conscia della forza e della crudeltà della sua padrona, teme che Medea stia meditando una terribile vendetta.
Sopraggiunge il pedagogo, con notizie ancora peggiori: Creonte ha intenzione di scacciare Medea e i suoi figli della città.
Si odono quindi fuori scena i lamenti di Medea, che maledice sé stessa, Giasone e i figli.
Giunge il coro formato dalle donne di Corinto, preoccupate per Medea e solidali verso di lei. Chiedono quindi alla nutrice di far uscire Medea.

Atto primo
Medea compare in scena ed espone la sua triste condizione: non solo è donna, quindi costretta a stare chiusa in casa, a partorire e a non poter divorziare dal marito, ma è anche straniera. Non c’è nessun parente qui in Grecia che possa difenderla e le usanze sono diverse da quelle della sua patria.
Chiede al coro di tacere, facendosi quindi suo complice, se troverà un modo per vendicarsi di coloro che la stanno facendo soffrire. Il coro acconsente, Medea ha ragione a volere farla pagare a suo marito.
Sopraggiunge quindi Creonte, che le comunica la decisione di esiliarla immediatamente insieme ai figli, perché teme la sua furia e i suoi poteri magici. Medea cerca di rabbonirlo, proclamando che non ce l’ha con lui, ma solo con Giasone, ma Creonte è irremovibile. Dopo averlo supplicato ancora, Creonte le concede di poter stare a Corinto per un giorno ancora, così che lei si possa preparare per l’esilio.
Il re esce di scena, e Medea gioisce: con quelle poche ore troverà il modo di compiere la sua vendetta, o uccidendo gli sposi con la spada o di nascosto con il veleno.

Atto secondo
Entra in scena Giasone. Lui e Medea hanno una violenta discussione, dove Giasone cerca di giustificare la sua infedeltà, mentre Medea lo accusa per il comportamento ignobile che ha tenuto nei suoi confronti. Fra gli argomenti di cui discutono, Giasone sostiene che imparentarsi con una stirpe regale è un bene per tutta la famiglia (Medea ribatte che allora avrebbe dovuto parlarne prima, non fare tutto di nascosto) e che Medea dovrebbe essergli grata; ora è in Grecia, non nella sua terra di barbari.
Giasone sostiene i suoi motivi utilitaristici con bei discorsi convincenti, ma Medea continua nel suo attacco: lei lo ha salvato, lei ha ucciso per lui, lei ha dato tutto per lui, e ora lui la tradisce senza pietà.
Infine Giasone prova a fornirle aiuto materiale, con denaro e contrassegni di ospitalità, ma Medea rifiuta sdegnosamente.
Giasone esce di scena. Il coro dà ragione a Medea.

Terzo episodio
Entra in scena Egeo, re di Atene, di ritorno dall’oracolo di Delfi, dove si era recato nella speranza di chiedere agli dei un figlio.
Medea lo mette al corrente della sua difficile situazione, ed Egeo prova pietà per lei. La donna gli propone quindi un patto: se Egeo la accoglierà ad Atene, lei gli fornirà pozioni magiche capaci di dargli un figlio. Egeo acconsente, e Medea lo obbliga a giurare.
Uscito Egeo, Medea è trionfante: finalmente ha trovato una via di salvezza, ora il suo piano può prendere forma.
Farà finta di essere stata persuasa da Giasone e di accettare l’esilio, ma chiederà che i figli possano rimanere a Corinto. Con il pretesto di ammorbidire Creusa, le manderà i bambini con ricchi doni: un peplo e una corona d’oro. Ma non appena la novella sposa li avrà indossati, morirà.
Quindi Medea concluderà la sua vendetta: ucciderà i suoi figli per ferire Giasone (qui si deve fare forza, tanto il pensiero la strazia) e fuggirà via.

Quarto episodio
Medea finge di essere stata persuasa da Giasone ad accettare serenamente l’esilio e mette in atto il suo piano. Gli chiede di tenere con sé i figli e dice di volerli mandare da Creusa, così che le possano consegnare i suoi preziosi doni. Giasone acconsente.
Il pedagogo ritorna con i figli e riferisce a Medea che l’ambasciata è andata a buon fine: Creusa ha accettato che i figli possano rimanere e ha preso i doni. Medea sbianca a queste parole, tormentata da ciò che significano. Prova a pensare a un nuovo piano, uno dove fugge portando con sé i figli, ma non può accettarlo, deve punire Giasone.
Il coro commenta che il dolore di un genitore che perde un figlio è maggiore di coloro che non hanno mai avuto prole.

Quinto atto
Un messaggero dice a Medea di scappare: Creusa e Creonte sono morti. Medea si fa raccontare la cosa nei dettagli, gioendo della vendetta andata a buon fine. Creusa non avrebbe voluto accettare i bambini, ma la vista del peplo e della corona d’oro era stata sufficiente a rabbonirla. Se li era provati, si era ammirata felice nello specchio, ma poi era impallidita ed era caduta, in preda al veleno. La corona aveva poi preso fuoco, mentre il veleno le lacerava le carni. Creonte alla vista terribile del cadavere sfigurato della figlia si era gettato su di lei, toccando il peplo avvelenato. Era morto così anche lui fra atroci tormenti.
Medea decide allora di uccidere subito i suoi figli e di scappare, temendo che cadano nelle mani degli abitanti di Corinto, inferociti per il duplice delitto. Dopo un altro momento di esitazione, entra in casa.
Mentre il coro geme per il dolore, si odono fuori scena i lamenti dei bambini mentre la madre li uccide.
Entra Giasone, deciso a farla pagare a Medea, ma anche a salvare i suoi figli, minacciati dai corinzi.
Medea compare sul carro del Sole, pronta a volare via, portando con sé i cadaveri dei figli. Giasone davanti alla morte dei bambini si dispera e chiede almeno di poterli seppellire, ma Medea rifiuta: vuole essere lei a celebrare il loro funerale.
Giasone la maledica davanti agli dei, Medea gli rinfaccia che la colpa di tutto è sua.
Quindi vola via sul carro divino, impunita (ma straziata dal dolore).

 

I grandi classici

Il signore delle mosche – Riassunto

William Golding

La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza.

Il signore delle mosche (Lord of the Flies) è il più celebre romanzo di William Golding, premio Nobel per la letteratura del 1983. Fu scritto nel 1952 ma, dopo esser stato rifiutato da numerose case editrici, fu pubblicato nel 1954 grazie all’intervento di T. S. Eliot. Il romanzo ebbe da subito un enorme successo, arrivando a vendere, negli anni, milioni di copie in tutto il mondo, oltre a essere stato soggetto di due rivisitazioni cinematografiche.
L’opera, annoverabile nel genere d’avventura, è in realtà una spietata e cruda critica sociale e politica. La trama ruota intorno all’assurdità dei rapporti umani tenuti in piedi da effimere convenzioni sociali. Golding racconta la vera natura dell’uomo, colui che «[…] produce il male come le api producono il miele», e lo fa attraverso la storia di un gruppo di ragazzini che, ritrovandosi naufraghi in un’isola deserta, senza adulti, privati delle famiglie e delle “leggi”, si ritrovano ad azzerare ogni qualsivoglia convenzione umana, regredendo allo stato primordiale, nel tentativo di ridisegnare le linee guida della convivenza. L’unico spazio possibile sembra essere quello di un apocalittico pessimismo: una terribile regressione verso il Male lascerà spazio alla legge del più forte e all’abominio della barbarie, attraverso la drammatica diffusione di pericolose e contrastanti ideologie.
L’opera è plasmata su un inevitabile linguaggio politico, e attinge spesso da un vocabolario specifico per descrivere i paradigmi di pensiero che coesistono all’interno di una società “democratica”.
L’ideologia di fondo dell’opera trapela attraverso il titolo, rievocazione della traduzione ebraica del nome di Belzebù, simbolo ed elogio del Male, unico vincitore in questa storia dai toni amari e funesti.

«Le leggi!» gridò Ralph. «Tu non rispetti le leggi!»
«A chi gliene importa?»
Ralph chiamò a raccolta tute le sue facoltà.
«Ma le leggi sono l’unica cosa che abbiamo!»
Ma Jack gli guardava in piena rivolta:
«Chi se ne frega delle leggi!» 

TRAMA

A seguito di un incidente aereo, un gruppo di studenti membri di un coro musicale, si ritrova naufrago su un’isola deserta del Pacifico, luogo ameno e paradisiaco, totalmente isolato dalla civiltà moderna.
Sono ragazzi fra i 6 e i 12 anni, completamente soli e senza l’aiuto di un adulto. I primi due personaggi che s’incontrano sono Ralph, ragazzino biondo di dodici anni, e Piggy, un bambino miope e sovrappeso. Grazie all’aiuto di una grande conchiglia i due riescono a radunare tutti i superstiti e, fin da subito, si ritiene necessaria la presenza di un ruolo di guida nel gruppo.
Dopo una votazione, Ralph viene nominato capo, spiccando immediatamente per la sua indole carismatica di leader; Piggy, dotato di una precoce saggezza, diviene invece il consigliere di Ralph.
Ben presto, però, si accendono i malcontenti: Jack, un altro giovane naufrago dal temperamento sovversivo, non è disposto ad accettare la supremazia del capogruppo, per questo Ralph si vede costretto ad affidargli il controllo di un gruppo di coristi per accontentarlo e placarne l’ira.

Ralph cerca fin sa subito di organizzare la piccola società di sopravvissuti attraverso una suddivisione dei compiti basata su un sistema di rudimentale democrazia: designa assembleeperiodiche e pianifica un congresso fondato sul turno di parola, organizza le costruzioni di rifugi e il procacciamento di cibo, fa allestire un fuoco sulla montagna, unico spiraglio di sopravvivenza, nella speranza di richiamare l’attenzione di qualche nave passeggera.
La piccola comunità di Ralph viene fondata sull’uguaglianza, sulla libertà e sull’accoglienza della molteplicità delle idee.
Ma non a tutti i ragazzi interessa collaborare e darsi da fare per questa comune, così inizia a formarsi specularmente un altro gruppo, quello guidato da Jack, dominato dalla violenza e dall’autoritarismo, sorvegliato con il terrore.
Una sorta di regime totalitario, contrapposto a quello libertario di Piggy e Ralph. La coesione dei ragazzi viene sempre meno fino a quando l’unica legge possibile sarà quella del disordine e dell’anarchia. A causa di questa situazione nessuno si accorgerà del passaggio di una nave proprio accanto all’isola…

La situazione degenera velocemente: il gruppo di Jack si distacca ufficialmente non riconoscendo più l’autorità di Ralph e richiamando a sé la maggioranza dei bambini. Il nuovo capo, il “signore delle mosche”, esercita la sua autorità attraverso la violenza sui suoi compagni; le adunate e le assemblee, le leggi e il rispetto, sono solo un lontano ricordo.
A questa situazione si aggiunge una paura folle e irrazionale che esplode tra i bambini a causa dello schianto, nell’isola, di un paracadutista: sorge la paura della “bestia”, qualcosa di ignoto che vive nella foresta. Gli animi dei bambini vengono sempre più corrotti da questa follia inconscia arrivando a dimenticare la prima legge naturale, quella dell’umanità, trasformandosi in assassini: uccidono un ragazzo nella foga di un rituale delirante e superstizioso, nel tentativo di scacciare la bestia, e ammazzano Piggy, vittima di un’ingiustificata violenza.
Con la morte di Piggy, unico personaggio a incarnare la saggezza e la difesa delle idee di libertà, viene a morire anche l’ultimo barlume di utopica speranza: la convivenza democratica sull’isola.
La storia termina con l’arrivo di una nave di passaggio: solo così Ralph riuscirà a salvarsi dalla minaccia di morte rappresentata dai suoi stessi compagni.

Il romanzo di Golding non lascia scampo, intrappola in questo finale solo apparentemente “positivo”, che in realtà grava con la pesantezza di un pessimismo umano inevitabile e incarnato in noi in modo atavico.

Oltre a una riflessione sulla natura umana, Golding traccia un percorso simbolico erede delle macerie del dopoguerra. Un inventario di metafore riconducibili non solo a riferimenti storico-politici, ma anche a categorie sociali, come per esempio l’assenza di leggi espressa dall’assenza degli adulti, l’innocenza dell’umanità (di cui si è persa traccia) rappresentata dall’infanzia degenerata e senza freni inibitori, la regressione a una barbarie primitiva come simbolo di una sovranità popolare abortita… Un romanzo apparentemente semplice, ma dalla stratificazione interpretativa molto ricca.

I grandi classici

Io non ho paura – Riassunto

Niccolò Ammaniti

“Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri”, mi aveva detto papà un giorno che gli avevo chiesto se i mostri potevano respirare sott’acqua.

Io non ho paura è un romanzo di Niccolò Ammaniti, pubblicato nel 2001, da cui è stato tratto l’omonimo film, nel 2003, diretto da Gabriele Salvatores.
La vicenda è ambientata nell’estate 1978 in un piccolo paese del sud Italia, Acqua Traverse, infelice villaggio ubicato tra campi di grano e polverose strade sterrate. Michele Amitrano è il piccolo protagonista che si ritrova, involontariamente, a essere testimone oculare di un terribile crimine operato dalla sua stessa famiglia.
È la storia di un segreto troppo grave e opprimente per essere nascosto, ovvero la storia di una fanciullezza interrotta da una scoperta indicibile. Una storia di paure, quelle infantili, fatte di mostri nascosti nel buio, e quelle reali, fatte di uomini criminali. Michele dovrà fare i conti con entrambe, senza comprendere le prime, ma affrontando eroicamente le seconde.
Ammaniti percorre la sua narrazione su due binari paralleli, ci mostra la vicenda con gli occhi del piccolo Michele, fantasiosi e innocenti, ma coraggiosi di fronte alla scoperta di una tragedia, e quelli degli adulti della vicenda, apparentemente irremovibili, ma sconfitti dai mostri creati da loro stessi.
TRAMA

Michele Amitrano ha nove anni quella lontana estate del 1978, e passa le sue giornate a correre in bicicletta con i suoi amici, nelle campagne di Acqua Traverse. In uno di questi afosi pomeriggi, Michele si ritrova a dover scontare una penitenza persa con gli amici, così cercando di vincere le sue più grandi paure, entra in una tetra casa abbandonata in aperta campagna:

– Io non ho paura di niente, – ho sussurrato per farmi coraggio, ma le gambe mi cedevano e una voce nel cervello mi urlava di non andare. […] Ho sollevato la coperta che gli copriva le gambe. Intorno alla caviglia destra aveva una grossa catena chiusa con un lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido trasparente e denso trasudava dalla carne e colava sulle maglie arrugginite della catena attaccata a un anello interrato. […] Poi il morto ha sollevato il busto come fosse vivo e a occhi chiusi ha allargato le braccia verso di me. I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro e sono inciampato nel secchio e la merda si è versata ovunque. Sono finito schiena a terra urlando. Anche il morto ha cominciato a urlare…

È qui che la sua vita cambierà: dentro un buco, all’interno dell’abitazione, trova un bambino legato e accasciato su un materasso, completamente sporco e simile a un mostro. Inizia in questo modo un’amicizia del tutto inusuale: di giorno in giorno, Michele gli farà visita, all’insaputa di tutti. Il bambino non capisce immediatamente la portata della sua scoperta: crede che il ragazzino trovato nel buco, un suo coetaneo di nome Filippo, sia una fratello gemello tenuto nascosto dai suoi genitori, forse perché un po’ ritardato. Pian piano la vicenda si dipana: Michele scopre che Filippo è tenuto in ostaggio dal padre e da alcuni complici del paese, contadini disperati alla ricerca di soldi facili da ottenere per mezzo di un ricatto umano. A causa del tradimento di un amico, Michele viene però scoperto dal padre e gli viene proibito di incontrare nuovamente Filippo.
La vicenda si conclude quando Michele scopre quelle che saranno le sorti del piccolo Filippo: essere infine ucciso dai sequestratori. Michele non indugia: corre a salvare Filippo, riesce a farlo uscire dal suo nascondiglio ma vi resta impigliato lui stesso. È in questo modo che, per sbaglio, il padre gli spara.
La storia si chiude su questa scena: il padre, disperato, tiene il figlio ferito tra le braccia. Uno scambio di persone, due figli, due bambini, due vittime nelle fauci di un destino che si fa beffa di un gioco criminale, troppo grande e troppo pericoloso.

Ammaniti ci racconta questa storia con una grande forza descrittiva evocando paesaggi rurali caratterizzanti del sud Italia, colori forti e contrastanti che ci pungono gli occhi, tanto da rimbalzarci continuamente davanti, dall’abbacinante luce del meriggio al profondo buio del buco, della notte, dei mostri…
Una narrazione incalzante e animata da un’atmosfera avventurosa, ma estremamente realistica, un ritmo stretto e incombente. La storia di una paura e di un grande coraggio.

I grandi classici

La chimera – Riassunto

Sebastiano Vassalli

Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1590, giorno di sant’Antonio abate, mani ignote deposero sul torno cioè sulla grande ruota in legno che si trovava all’ingresso della Casa di Carità di San Michele fuori le mura, a Novara, un neonato di sesso femminile, scuro d’occhi, di pelle e di capelli: per i gusti dell’epoca, quasi un mostro.

La chimera è un romanzo storico di Sebastiano Vassalli pubblicato nel 1990, stesso anno in cui vince il Premio Strega. Il romanzo si svolge durante gli anni della Controriforma in Piemonte, nel piccolo paese di Zardino. Questi sono gli anni bui dell’Inquisizione, il secolo oscuro del fanatismo in cui, in nome di un dio crudele, migliaia di “eretici” furono perseguitati e uccisi. Al centro della narrazione c’è la storia di una donna, Antonia, che Vassalli riporta alla luce dalle ceneri dell’oblio e del suo stesso rogo, protagonista dell’intolleranza religiosa e dell’inciviltà di una cultura priva di senno. Antonia ebbe prima la sfortuna di essere bella, di una bellezza sconvolgente e inquietante, che avrebbe attirato su di sé solo maldicenze, e la sfortuna di essere denunciata come strega all’Inquisizione in un momento in cui il Tribunale di Novara voleva rivendicare la propria autonomia nei confronti della Chiesa di Roma. E infine la sfortuna di vivere in mezzo a un popolo monopolizzato dai poteri della Chiesa che lo rese carnefice e martire di se stesso.

Una notte del gennaio 1590 Antonia fu abbandonata nella ruota della Casa di Carità, a Novara e accolta e cresciuta dal convento delle suore, nella più rigida disciplina. Viene battezzata con il cognome di Spagnolini a causa dei suoi colori e dei suoi lineamenti, insoliti per l’epoca: occhi e capelli neri, pelle molto scura, labbra carnose. Crescendo la bambina diviene la più bella fra tutte le esposte e, per questo, viene scelta per accogliere il vescovo Bescapè e recitare la poesia di benvenuto. Costretta a mangiare un uovo prima della cerimonia, la bambina sviene di fronte all’uomo (un po’ per l’emozione, un po’ a causa dell’uovo) e questa sarà la prima delle tante “stranezze” nella sua vita di presunta strega.

All’età di dieci anni verrà adottata dalla famiglia Nidasio, coppia di contadini, e portata nel villaggio di Zardino. La sua bellezza e la sua grazia iniziano ad attirare su di sé maldicenze e dicerie, ogni uomo se ne innamora e, in breve tempo, si diffonde la voce che Antonia catturi gli uomini con arti magiche, che sia dunque una strega, per questo nel paese continuano ad accadere eventi strani: la carestia, la siccità, una vacca senza latte, un albero che smette di produrre frutti… È per forza opera del diavolo e della sua discepola: la strega Antonia.

Inizia così il processo e, un sabato di settembre 1610, Antonia viene arsa in piazza, dopo aver subito violenze e torture, acclamata dai festeggiamenti del popolo. La sua morte sarà però addolcita dal boia che, in gran segreto, l’avvelenerà prima di essere divorata dalla fiamme, per non farla soffrire.

I grandi classici

Il conte di Montecristo – Riassunto

Alexandre Dumas

Il 28 febbraio 1815 il diciannovenne Edmond Dantès sbarca a Marsiglia con la sua nave mercantile “Il Faraone” dopo averne preso il comando.
Durante il viaggio, infatti, il vecchio Capitano Leclerc è morto.
Il capitano aveva consegnato a Edmond una lettera che ne denotava la fede bonapartista, e il giovane Edmond avrebbe dovuto consegnarla a Parigi.

Appena arrivato, Edmond chiede un congedo dall’armatore Morrel e approfitta dei giorni di licenza per andare a trovare il suo anziano padre e una ragazza catalana di nome Mercedes alla quale ha intenzione di proporre il fidanzamento.
Il giorno successivo, durante il banchetto di fidanzamento, Edmond viene arrestato con l’accusa di bonapartismo.

È stato incastrato da una lettera anonima, recapitata alla gendarmeria e scritta dal suo contabile di bordo, un tale Danglars, che è invidioso della nomina di capitano di vascello di cui Edmond è stato insignito.
Danglars è stato aiutato nella sua opera da uno spasimante di Mercedes, Fernando, e dal suo vicino di casa Caderousse, un giovane magistrato ambizioso e senza scrupoli. Edmond viene interrogato, in gendarmeria, dal Procuratore Villefort, al quale consegna la lettera nella quale erano contenute accuse compromettenti per il padre di Villefort.

Il Procuratore distrugge la lettera, e dispone che Dantès sia incarcerato nel Castello d’If, una fortezza adibita a penitenziario su di un isolotto davanti alla costa marsigliese.
Dantes è segregato dunque nel castello, dove fa conoscenza di un altro prigioniero: l’abate Faria.
Questi è uno scienziato di origine italiana, stravagante ma geniale, che parla di un tesoro favoloso sepolto nell’isola di Montecristo.
Faria è anche un letterato, e dà ad Edmond la possibilità di istruirsi e imparare le lingue.

Passano molti anni.

Faria, malato di epilessia, dopo tre attacchi particolarmente violenti muore, lasciando in eredità a Edmond la mappa del tesoro di Montecristo.
Edmond, sostituendosi al cadavere dell’amico, riesce ad evadere.
Sono passati 14 anni dal giorno in cui è stato incarcerato.

Si ritrova in mare aperto durante una tempesta, ma viene salvato da una nave di contrabbandieri italiani che fanno rotta proprio verso l’isola di Montecristo.
Con un espediente, Edmond riesce a restare solo sull’isola e, seguendo la mappa di Faria, ritrova l’antico e inestimabile tesoro. Edmond arriva in Italia e si fa nominare Conte di Montecristo dalle Autorità.
Ritorna poi a Marsiglia, dove nessuno lo riconosce, e rintraccia Caderousse. Questi si è messo nel frattempo a fare l’oste e gli racconta, dopo aver ricevuto in dono un diamante, che suo padre era morto per gli stenti mentre lo aspettava.

Morrel aveva fatto di tutto per farlo uscire di prigione, senza riuscirvi, e ora si trova in una situazione difficile dal punto di vista finanziario; Mercedes, promessa sposa di Dantès, si era sposata con Ferdinando (nominato Conte di Morcerf per i meriti militari ottenuti in Turchia tradendo il suo sultano) e Danglars era diventato banchiere grazie alle speculazioni spagnole ed era stato nominato anche Barone.

Montecristo prepara la vendetta: per prima cosa si fa accogliere e riconoscere dalla nobiltà parigina.
Salva Morrel dalla bancarotta; fa morire Caderousse, per mano del suo complice, mentre tenta un colpo a casa sua; spinge al suicidio Fernando, dopo averlo disonorato davanti a tutta la nobiltà parigina; rovina Villefort facendo suicidare la moglie e il figlio più piccolo, scoprendo anche un figlio illegittimo dell’ex Procuratore; manda in bancarotta e fa rapire dai banditi Danglars, al quale salva la vita in extremis. Infine lascia a Mercedes, disonorata e senza soldi, la casa del vecchio padre a Marsiglia; mentre a Morrel figlio lascia tutti i suoi averi in Francia e lo fa sposare con l’unica sopravvissuta della famiglia Villefort: Valentina.

Finalmente, la vendetta compiuta fino in fondo, il Conte si ritira nella sua piccola isola con la moglie-schiava Haydee

Il buio oltre la siepe – Riassunto

Harper Lee

Noi sappiamo che non tutti gli uomini furono creati eguali, nel senso che molta gente vorrebbe farci credere: sappiamo che vi sono persone più intelligenti di altre, più capaci di altre per natura, uomini che riescono a guadagnare più denaro, donne che fanno dolci migliori, individui dotati di qualità negate invece alla maggioranza degli uomini. Ma c’è una cosa, nel nostro paese, di fronte alla quale tutti gli uomini furono davvero creati uguali: un’istituzione umana che fa di un povero l’eguale di Rockefeller, di uno stupido l’eguale di Einstein, e di un’ignorante l’eguale di un rettore di università. Questa istituzione, signori, è il tribunale.

TRAMA

La protagonista del libro è Scout, ragazzina vivace attraverso la quale ci viene mostrata la realtà, e suo fratello Jem, entrambi orfani di madre. I bambini crescono nella cittadina di Maycomb, in Alabama, educati dal padre Atticus, avvocato dai limpidi principi morali, e dalla governante nera, Calpurnia. Fin da subito, Jem e Scout si rendono conto della rete di rapporti della loro piccola comunità e, molto spesso, sono testimoni di violenze quotidiane e soprusi nei confronti delle persone di colore.
Uno dei loro passatempi preferiti è quello di fantasticare sul loro misterioso vicino di casa, Boo, il quale – affetto da problemi di origine caratteriale – non esce mai dalla sua abitazione. I bambini ne sono molto spaventati, pur senza un motivo razionale di fondo, e sono ostili nei confronti di Boo solo perché “strano” e solitario, caratteristiche che accrescono il loro pregiudizio.

La tranquillità dei ragazzi viene rotta da una vicenda che avviene nella cittadina: Tom Robinson, giovane di colore, viene ingiustamente accusato di aver mosso violenza sessuale nei confronti di una donna bianca. Sarà Atticus, in quanto avvocato, a incaricarsi di difendere Tom ma, nonostante riesca a dimostrare l’assenza di prove e avvalori l’innocenza del giovane, il Tribunale deciderà ugualmente di condannarlo. Scout e Jem sono i testimoni di questa dolorosa vicenda: prima subiscono essi stessi discriminazioni a causa della difesa del padre, poi assistono al linciaggio e alla morte di Tom. È in questo modo che comprendono, per la prima volta, la carica di quello che stava rappresentando il razzismo all’interno della loro comunità.
Verso la fine del libro i due fratelli subiscono un tentativo di aggressione ma vengono fortunatamente salvati dal loro vicino, il famoso Boo, che si rivela buono e affezionato ai ragazzi, avendoli osservati per anni dall’interno della propria abitazione.

Un romanzo cult sulla tematica del razzismo, commovente e intramontabile che mostra come, in quella comunità, gli unici a riuscire a superare i pregiudizi furono i bambini, portatori del seme del cambiamento. Il libro ebbe un’importante risonanza negli anni in cui Harper Lee lo scrisse, un po’ perché l’America nera era ancora in lotta per ottenere i diritti civili e vincere la segregazione, un po’ perché era ancora radicata la superiorità “umana” e di casta della maggioranza bianca.

I grandi classici

I dialoghi con Leucò – Riassunto

Cesare Pavese

Tiresia: Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le chiami. Non sai ancora che sotto la terra c’è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro.
I chiechi in I dialoghi con Leucò

I dialoghi con Leucò è un compendio di ventisei racconti nella forma di dialoghi a sfondo mitologico e simbolico. L’opera fu scritta nel 1946 e pubblicata da Einaudi nel 1947. Nucleo fondamentale su cui si basa la raccolta è il tema del mito che viene riproposto in chiave moderna e “fantastica” come l’essenza latente e immortale presente nella storia dell’umanità. Il mito diviene in questo modo la chiave necessaria d’interpretazione della realtà, la porta che si apre di fronte alla cultura comune dell’uomo e della società. È vero che Pavese attinge direttamente da una mitologia tramontata, quella greca, ma è una mitologia carica di significati universali che ci appartengono ancora in modo profondo e che permettono di esternare ed eternare i desideri, le paure e i sentimenti più inconsci e remoti dell’uomo di oggi, e dell’uomo di ieri.

Alcune righe dalla Prefazione di Cesare Pavese che, esprimendosi in terza persona, spiega come sia nata la sua opera:

«Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi»

TRAMA

ventisei dialoghi dell’opera di Pavese sono organizzati in brevi conversazioni a due interlocutori. È sempre presente una protagonista, Leucotea (troncata in Leucò) che alterna le sue conversazioni con eroi della mitologia greca e latina, sia dèi, sia mortali (da Edipo a Tiresia, da Calipso a Odisseo, da Eros e Tànatos, da Achille a Patroclo…). Le conversazioni, ricche di tensione e intrise di tragedia, affrontano le tematiche più universali della storia dell’umanità: il rapporto tra uomo e natura, le eterne angosce dell’uomo, la sessualità, la morte, la necessità del dolore, il destino, il ricordo, il rimpianto ecc.
Il primo nucleo tematico è quello che vede il passaggio dell’uomo dal caos dell’indistinto (I Titani) al mondo degli dèi. Motivo connesso al passaggio dall’irrazionale alla presa di coscienza della ragione, è quello della nostalgia per l’infanzia (I due, La madre), argomento ricorrente nell’angoscioso esistenzialismo pavesiano. Altra tematica ingombrante nel libro è quella della sessualità (Gli Argonauti, Schiuma d’onda, La belva, L’inconsolabile) in cui si affronta in modo tragico il legame tra sesso e morte. Il tema della morte è associato in modo assoluto all’idea di libertà (in questo senso mancante) di fronte a un destino segnato (La madre, I due, La strada) che porta, senza possibilità di uscita, alla tristezza della condizione dell’uomo. La rupe, La chimera e La nube si scontrano con l’idea del combattimento, dell’audacia e della sconfitta; infine viene illustrato l’anelato desiderio umano di raggiungere gli dei, l’irrazionale, l’esaltazione e l’aspirazione al divino in un contrasto eterno e incolmabile.

Nata nell’epoca del neorealismo e tra le ceneri della seconda guerra mondiale, quando il presente gravava in modo irruento nelle penne dei suoi contemporanei, l’opera di Pavese riesce a distaccarsi da quella realtà cercando d’interpretarla in modo nuovo, attraverso una mitologia apparentemente lontana e sepolta, rispetto all’incombente materialismo di quegli anni. I Dialoghi rappresentano una delle opere intellettuali e spirituali più significative del Novecento.
Solo tre anni dopo Pavese si toglierà la vita in un albergo di Torino. Sul suo comodino il testo dei suoi Dialoghi con sopra un biglietto di addio:

I grandi classici

Edipo Re – Riassunto

Sofocle

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La storia

Edipo, re di Tebe (nella Beozia), è deciso a estirpare la causa di una pestilenza che tormenta la sua città.
Il dio risponde: la citta è contaminata a causa della morte, rimasta impunita, del suo vecchio re Laio; si deve trovare il colpevole.
Edipo sospetta del cognato Creonte e del profeta Tiresia, che, interrogato, si era rifiutato di rispondere; anzi, aveva imputato allo stesso Edipo quel delitto.
A questa situazione dà esito Giocasta, già moglie di Laio e convolata poi, in seguito alla sua morte, a seconde nozze con Edipo.
Giocasta invita il marito a non dare ascolto a nessun oracolo e a nessun profeta; anche a Laio – sostiene – il dio aveva detto che sarebbe stato ucciso da suo figlio, e invece l’unico figlio di Laio morì appena nato.

Lo stesso Edipo aveva avuto un oracolo che gli aveva predetto come un giorno egli avrebbe ucciso suo padre e si sarebbe unito alla madre.

Proprio allora giunge notizia che Polibo, padre di Edipo, è morto nella sua terra di Corinto. Ma un vecchio servo della casa di Laio solleva infine, tra dolorose reticenze, ogni velo: Edipo è figlio di Laio, che lo espose neonato sulle balze del monte Citerone affinché morisse; qui il piccino fu raccolto da Polibo, che lo adottò come suo.
Edipo, udendo il racconto e rendendosi conto di quel che è accaduto, si trafigge gli occhi con due fibbie, e diventa cieco, mentre Giocasta si strangola con un laccio. Creonte viene eletto re di Tebe.

Un commento

Nell’animo di Edipo ci sono intelligenza e autorità.
Questo mortale, che ha svelato il mistero della Sfinge (tempo addietro egli aveva liberato la città dal terrore di questo mostro rivelando i suoi enigmi) e suole chiamarsi con altezzosa sfida “figlio della Fortuna”, non si perita di oltraggiare dei e irridere vaticini: è in lui il germe di un peccato originale, per via del quale la sua stessa sapienza e potenza sembrano diventare follia e rovina. La sua figura, fin dal suo primo apparire nel fasto e nella dignita del paludamento regale, è un’ombra nel buio. Egli, l’accorto, l’esperto, non vede nulla, non sa nulla; tutto chiede, ovunque interroga; perché i sudditi vengono a lui? perché la peste? Deride come falso ciò che non ha mai saputo, ed è falso ciò che crede di sapere. Anche la verità, quando si apre ai suoi occhi, pare a lui così assurda e incomprensibile, ch’egli si accieca,
come se così gli potesse essere più facile il non vederla. Si è parlato molto dell’Edipo re come di un dramma a tesi: il destino che travolge gli uomini, gli dei che puniscono il peccatore. Certo è che nel dramma appare chiaro il problema della libertà; se le cose degli uomini siano guidate degli uomini o da qualche altra necessità. Ma Sofocle é profondamente lontano dall’impostare la sua poesia da questo punto di vista.
Egli vede il problema, per quanto astratto ed elevato esso sia, solo nel suo attuarsi, che è poi anche il suo effettivo crearsi.
Lo sente vivo in quel dramma eterno e universale che è l’umanità.
E uomo è il suo Edipo, uomo pieno di ogni contraddizione. Nascono tutti i problemi: la vittoria è sconfitta, e la sconfitta trasfigurazione.

In particolar modo in questa tragedia l’arte, ben familiare a Sofocle, di condensare il dramma attorno un solo personaggio, calando nell’atmosfera di questo idee e immagini, trova una compiuta realizzazione.
Nelle altre tragedie classiche, invece, il protagonista riveste nella sua umanità un solo aspetto, come la fede religiosa di Antigone o il senso morale di Aiace.

I grandi classici

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore – Riassunto

Raymond Carver

Pubblicato nel 1981, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è una delle raccolte più note e fortunate di Raymond Carver. Intitolata inizialmente Principianti, la raccolta è anche un esempio interessante del lavoro di taglio che l’editor Gordon Lish operò sui racconti di Carver, andando a definirne lo stile che ne decretò il successo e fece scuola.
La raccolta è composta di 17 racconti brevi che sono un esempio eccellente dello stile “minimalista” – asciutto, essenziale, scabro e oggettivo – di Carver.
Carver è ossessionato dalla quotidianità. I suoi personaggi sono uomini e donne umili dell’America di provincia alle prese con la banalità del quotidiano, senza aspirazioni, colti in momenti di crisi o rottura, spesso in compagnia di una bottiglia di whisky, impegnati nel tentativo di trovare un senso e di sbarcare il lunario. La tensione viene spesso portata al massimo, ma alla fine tutto si sgonfia e niente si risolve. La grigia quotidianità annulla ogni tentativo di dialogo e comunicazione tra gli uomini.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta mette in scena due coppie che cercano di definire cosa sia l’amore. Ognuno dice cosa pensa sia l’amore, ma alla fine ogni definizione sarà diversa, il clima diventa teso e il tentativo di dialogo si rivelerà inutile.

Enrico IV – Riassunto

Luigi Pirandello 

La storia

Un giovane, mentre prende parte a una cavalcata in costume, nei panni di Enrico IV imperatore di Germania, viene sbalzato da cavallo, batte la testa e impazzisce.
Da quel momento, crede di essere veramente Enrico IV, esigendo rispetto per il suo ruolo regale.
La finzione è pietosamente assecondata da parenti e amici, che trasformano la sua villa in una reggia, e lo circondano di servi travestiti da cortigiani; in questa corte fittizia Enrico IV (l’autore non cita mai il nome che egli aveva in precedenza) vive per dodici anni finché, a un tratto, rinsavisce.

Si ritrova già maturo, senza avere vissuto la giovinezza, e ormai è solo; Matilde Spina, la giovane marchesa che lo accompagnava la sera della cavalcata, è diventata l’amante di Belcredi, odiato rivale, colui che provocò la sua caduta per sbarazzarsi di lui.

Escluso dalla vita, egli decide di farsi credere ancora pazzo e guardare la vita curiosamente dal di fuori, ora che la vita gli è ormai negata.

A questo punto comincia il dramma; arrivano al castello la bella ma ormai attempata Matilde con la figlia Frida, il fidanzato di questa, Belcredi e un medico che si propone di guarire colui che è creduto folle.

L’udienza con l’imperatore (Matilde sotto le vesti della contessa Matilde di Toscana, e Belcredi in tenuta da Pier Damiani) è drammatica e preparatoria.
Enrico IV si diverte a condurre un gioco enigmatico con la loro ragione, rivolge a Matilde discorsi allusivi che le danno l’impressione che egli l’abbia riconosciuta.

Il medico, che osserva il caso con rigore scientifico, non dubita di quella pazzia, ma crede che basterà un semplice esperimento per rendere a Enrico IV la ragione: preparerà un incontro fra Enrico IV, la marchesa Matilde e la figliola Frida, vestite entrambe da contessa Matilde di Toscana; facendogli ravvisare nella figlia le fattezze della Matilde di un tempo (che lo fiancheggiava a cavallo in quella tragica sera), riportera il folle a quel momento e gli permetterà di riprendere, a partire da quel momento di trauma, una nuova vita.

“Come un orologio che si sia arrestato a una cert’ora, e che si rimetta a segnare il suo tempo, dopo un cosi lungo arresto”.

Ma Enrico, mentre i preparativi fervono, si e già rivelato ai suoi servi.
Sconvolto dalla vista di Belcredi, egli confessa di non essere più pazzo e avvisa che la mascherata sta per finire. Arriva Frida. Travestita da contessa Matilde, ha preso il posto di un grande dipinto raffigurante la contessa; quando Enrico entra, ella lo chiama, e quella visione dà a Enrico un terrore folle, gli fa credere d’essere ancora pazzo e di vedere fantasmi.

Gli altri irrompono: i servi hanno già rivelato tutto e, visto che la pazzia è finita, Belcredi e Matilda lo vogliono portar via con loro.

Ma dove può andare, ormai, Enrico IV? L’ultima via di scampo è offerta da Frida; il tempo pare essersi fermato in lei, e rinasce in quest’ennesima finzione.
Non impunemente, però.

Enrico IV fa per abbracciare Frida e quando Belcredi cerca di impedirglielo lo trafigge con la spada.
D’ora in avanti la pazzia sarà necessaria a Enrico IV come condanna e insieme liberazione.

Un’analisi

L’amarezza vibrante di questa tragedia porta a un risultato di limpida bellezza, a una catarsi vera e propria; forse in “Enrico IV” più che in altre tragedie, il pirandellismo vince i suoi schemi e attinge a una tensione interiore davvero universale.
Anche se i motivi esteriori si rincorrono, neutralizzandosi (vita e forma, pazzia e ragione, realta e finzione e le classiche antinomie pirandelliane), tutto si risolve in una appassionata, tormentata ricerca dell’uomo.

Sui discorsi frivoli e pomposi di coloro che lo circondano, un monologo si svolge nei gesti e nelle parole di Enrico IV, sulla responsabilità e la vita stessa, dell’uomo.

Il gioco più classico di Pirandello – l’uno nessuno centomila, le personalita rifratte e disperse, le tante verità simultanee – si fa qui estremamente solenne, serio, di un’alta malinconia.